Il Quinto Calice
Il bicchiere era vuoto da qualche minuto.
Mario non lo aveva ancora posato, lo teneva con due dita, girandolo piano. Come se un gesto così banale potesse dare un senso al silenzio che gli ronzava intorno.
Il bar era mezzo vuoto. A quell’ora, in Corso Magenta, c’è solo chi ha troppo tempo o chi cerca di perderne un po'.
«Quattro sono troppi per le undici, Mario» gli aveva detto il barista.
Lui aveva risposto con un sorriso stanco e una battuta su una riunione andata storta, ma dentro non rideva affatto.
Il cellulare sul tavolo restava muto. Lo guardava ogni trenta secondi, senza farlo davvero.
Serena.
Era per lei che aveva smesso di fumare, di correre dietro agli eventi, di fingere di bastarsi.
Ed era per lei che, paradossalmente, adesso era tornato a farlo.
Un anno e mezzo non bastano a dimenticare qualcuno che ti ha fatto sentire a casa.
E lui, la casa, l’aveva cercata in tutto tranne che nel tempo condiviso.
Aveva scelto la scrivania, la strategia, il portfolio… sempre quel maledetto portfolio.
Un edificio bellissimo in Corso Magenta, sì. Ma vuoto. Elegante come una scatola di cioccolatini lasciata a metà da troppo tempo.
Serena non gli aveva chiesto di diventare ricco. Gli aveva chiesto solo tempo.
Tempo per guardarla. Per ascoltarla. Per restare.
E lui quel tempo non l’aveva mai trovato, convinto che prima venisse “sistemarsi”, e poi vivere.
Ma lei non aveva voluto aspettare quel poi.
Ora Serena stava per diventare madre. E Mario... non sapeva nemmeno più cosa voleva essere.
Uomo, professionista, fantasma.
Amava ancora Serena, ma non era più la sua Serena. Lei cantava la loro canzone con qualcun altro, con una mano sulla pancia e il cuore pieno.
E lui?
Lui aveva solo quel calice quasi vuoto tra le dita, e un bar che a mezzogiorno sembrava sera.
Il cellulare si illuminò. Un suono secco, come una goccia su una superficie vuota.
Mario sussultò appena. Guardò lo schermo.
Era un messaggio.
Ma non di Serena.
Era l'architetto con cui stava lavorando da mesi a un progetto editoriale importante. Gli scriveva che il team aveva finalmente approvato la sua proposta.
Un piccolo traguardo. Uno di quelli che, fino a poco tempo fa, lo avrebbero riempito di orgoglio.
Eppure, quel giorno, non bastava.
Chiuse gli occhi un istante. Un lungo istante.
Poi si alzò, lasciò qualche moneta sul banco, accennò un cenno al barista e uscì.
L’aria di luglio era calda e fissa. Corso Magenta sembrava la stessa di sempre, ma lui no.
Per la prima volta da mesi non tornò in ufficio subito.
Prese a camminare senza una meta precisa.
Forse verso il parco.
O forse da tutt’altra parte.
Non lo sapeva nemmeno lui.
Ma per un attimo, solo un attimo, si sentì libero di non saperlo.