“Volevo essere un duro” – Lucio Corsi e la forza della dolcezza

C’è qualcosa in Volevo essere un duro che mi ha commossa subito, ancora prima di capirne il significato. È quella voce lieve, quella melodia gentile, che sembrano arrivare da un altro tempo o forse da un altrove emotivo. Lucio Corsi non canta solo una canzone: si racconta. E lo fa con una dolcezza che oggi è quasi un atto rivoluzionario.

E qui mi ci ritrovo moltissimo, perché mi sembra che fin da quando sono piccola, sia richiesto alle persone di sembrare dei duri, dei “cazzuti”, anche quando questo non appartiene alla persona a cui lo si sta dicendo. Ma a che pro? A cosa serve essere sempre un duro? È pur vero che il mondo, a volte, sembra crudele — ma io lo vorrei diverso. Forse è un pensiero utopico, ma se non parto io a non essere la persona dura e spigolosa che il mondo si aspetta, come posso pretendere che le cose cambino? Come posso sperare che diventi un mondo migliore?

La prima volta che ho ascoltato la canzone ho sorriso. E poi ho sentito un piccolo nodo in gola. Perché sì, è vero: tutti noi forse abbiamo desiderato, almeno una volta, di essere “dei duri”, quelli che non hanno paura, che sanno sempre cosa fare, che tengono tutto sotto controllo. Ma esiste davvero qualcuno così? Così impermeabile alla fatica, così immune allo stress da non logorarsi mai il fegato o il cuore? O forse vive meglio chi smette di lottare contro la propria natura, chi non vuole essere un duro — e invece fa del bene?

Lucio ci confessa con semplicità: “io volevo essere un duro, però non sono nessuno… non sono altro che Lucio.” E lì, proprio lì, mi si è aperto il cuore. In quelle parole così disarmanti, ho visto una forma nuova di forza: la forza della resa gentile. Non la resa che si arrende, ma quella che accoglie. Che smette di forzarsi a essere qualcosa di altro, e finalmente si riconosce per quello che è.

Lucio si mostra per com’è: sensibile, tenero, forse un po’ impacciato. Ma vero. E questa verità, nella sua forma più delicata, ha qualcosa di terapeutico. Ci dice che possiamo lasciar andare le maschere, le corazze, le pressioni. Che possiamo essere vulnerabili — e continuare a camminare.

Mi piace pensare che questa canzone sia un piccolo spazio sicuro per chi, ogni tanto, si sente troppo fragile per questo mondo rumoroso. Un invito a non difendersi più dalla propria sensibilità, ma a farne casa. Un sussurro che ci ricorda che non dobbiamo sempre essere forti per essere amabili.

“I girasoli con gli occhiali mi hanno detto: ‘Stai attento alla luce’”
I girasoli seguono la luce, è la loro natura. Ma questi hanno gli occhiali — quasi come se volessero proteggersi da una luce troppo intensa, da un’illuminazione che abbaglia. Forse è un invito a non farsi accecare da ciò che sembra brillante, o da ideali troppo perfetti. E questa immagine mi piace moltissimo, perché a volte gli ideali che ci spingono sembrano luminosi, ma finiscono per bruciarci.

“E che le lune senza buche sono fregature”
Un’immagine paradossale e bellissima: ci aspettiamo che una luna perfetta sia desiderabile — e invece no. Le sue buche, le sue crepe, sono ciò che la rendono vera. Una luna liscia, impeccabile, è sospetta: forse è finta, forse è troppo perfetta per essere autentica. Come le persone, dopotutto.

Lucio non ha bisogno di essere un duro.
E nemmeno noi.

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