Le caramelle che scoppiettano
Era un sabato mattina d’inizio estate, e a Milano faceva un caldo quasi spietato. L’asfalto sembrava sciogliersi, e ogni marciapiede rifletteva la luce in un bagliore lattiginoso. Il centro brulicava di turisti in sandali e residenti un po’ accaldati, alla ricerca di ombra e aria condizionata.
Lui camminava senza fretta in via Dante, con addosso una maglietta stampata con un disegno sbiadito, e un paio di bermuda di jeans che gli arrivavano al ginocchio. Ai piedi aveva scarpe da ginnastica, e in mano una busta di carta di un negozio che vende oggetti di ogni tipo. Aveva pochi capelli, radi e chiari, e sul volto una calma pacata, come se il caldo non lo disturbasse davvero.
Dentro la busta, tra altri piccoli acquisti, c’era un sacchettino di caramelle, di quelle che scoppiettano a contatto con la saliva. Avevano un colore acceso e lo scoppiettio in bocca faceva frusciare i ricordi.
Si sedette su una panchina all’ombra incerta di un albero cittadino, una di quelle piante sottili che non danno davvero sollievo ma che almeno provano a farlo. Aprì il sacchetto e ne prese una manciata. La mise in bocca, e per un attimo chiuse gli occhi. Quel suono piccolo, vivace e irregolare lo riportò indietro di trent’anni in un secondo solo.
Sua madre gliele portava ogni tanto, quelle caramelle. Lavorava come infermiera in ospedale, turni lunghi e pesanti, sempre di corsa, ma ogni tanto si fermava in un negozietto sulla strada di casa. Una bustina sola, niente di speciale, ma per lui significava tanto. Un gesto che diceva “Ti ho pensato”, senza bisogno di parole.
Aveva otto anni, forse nove. Suo padre era già malato da tempo. Una SLA rapida e feroce l’aveva ridotto al silenzio, immobile in un letto proprio nel reparto dove sua madre lavorava. Lui passava le giornate da solo, a casa. Sapeva vestirsi, farsi la colazione, mettersi lo zaino in spalla. A scuola non parlava molto: era timido, goffo. Non aveva amici veri. Ma aveva imparato a essere forte.
Col tempo, aveva capito che non era il tipo da eccellere. Ci metteva impegno, ma non bastava mai. Così, finita la scuola dell’obbligo, non aveva insistito. Era andato a lavorare in un magazzino di un supermercato lombardo e, anno dopo anno, era rimasto lì.
L’amore? Ogni tanto aveva accarezzato l’idea, si era anche lasciato coinvolgere. Ma appena le cose si facevano serie, si tirava indietro. Non perché non volesse, ma perché non si era mai sentito davvero all’altezza. Non si vedeva come qualcuno capace di proteggere, sostenere, costruire qualcosa con un’altra persona.
Ora viveva nella casa dove era cresciuto. Sua madre se n’era andata qualche anno prima, in silenzio, con la stessa forza discreta con cui aveva vissuto. Non aveva lasciato molto, se non quella casa e un amore grande, che ancora oggi lui sentiva dentro, vivo, come una radice profonda.
Quel giorno, in quel negozio pieno di oggetti inutili, aveva visto il sacchetto di caramelle. Un piccolo déjà-vu colorato. Non aveva esitato. Le aveva prese, come se volesse rivivere la carezza di sua madre.
E ora, con la città che gli girava intorno e il caldo che appesantiva l’aria, le lasciava scoppiettare in bocca.
Sorrideva.
Non aveva molto. Non aveva tutto. Ma in quel momento, con quelle caramelle che frizzavano tra lingua e memoria, si sentiva incredibilmente pieno.
E, in fondo, felice.